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Olio dall’Ottocento ai giorni nostri


Nel XIX secolo l'olivo continua ad avanzare sulle colline italiche: c'è bisogno d'olio per le lampade e le tavole di una popolazione in aumento, e per un'industria sempre più fiorente. 
L'olivo è parte fondamentale della piccola e media proprietà, un solido investimento. Il potere pubblico ne incoraggia l’impianto, e l'Umbria si copre di olivi in un decennio seguendo l’invito di Pio VIII, che nel 1830 promette il premio di un “Paolo”, il guadagno di una giornata per un bracciante, a chi metta a dimora e allevi fino a 18 mesi una pianta. Passano gli anni, e in Liguria per motivi politici, dopo il distacco dal grande mercato dell'impero francese, l'olio locale cede il mercato a quello di Puglia e Toscana. 
Poi, dalla seconda metà del secolo, a seguito di avverse condizioni climatiche e di malattie che colpiscono le piante, in alcune zone dell'Italia meridionale si abbattono gli ulivi per avere legna. 
La produzione scende, e l’inizio del ‘900 non porta variazioni di rilievo, solo qualche oscillazione tra annate più o meno favorevoli. 
Sono gli anni Trenta a dare il via ad un periodo particolarmente felice, grazie a leggi che promuovono in tutta Italia l'olivicoltura. 
Negli anni successivi alla guerra mondiale, il prestigio della pianta sacra ha una flessione, la cucina tradizionale italiana viene bollata come rozza, popolare, povera. Sono in auge i cibi d'oltreoceano, le abitudini nordiche sembrano più civili, il burro più nobile dell'olio, e le nostre tavole sorridono alle margarine industriali. Lo splendore dell'olio d'oliva decade insieme alla perfezione del latte materno: sembra che questi tesori della natura non si usino più. 
Fortunatamente con gli anni ‘80, per la riscoperta di sapori più naturali e genuini, l'olio riprende il suo posto di re della tavola. 



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